Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
La partenza era fissata per le cinque del mattino. Dovevamo trovarci alla stazione degli autobus, a Lampugnano, dalle parti di San Siro. Di auto, nessuno ne possedeva più: tutte distrutte nei bombardamenti, o vendute, per racimolare un po’ di soldi. Alle cinque a Lampugnano era ancora buio. Avevamo in spalla grossi zaini in cui avevamo stipato ciò che avevamo di più caro, pochi vestiti, medicine, e soldi, quel che ci era rimasto. La stazione mostrava i segni della guerra, le pensiline in macerie. Anche gli autobus erano ferrivecchi, con centinaia di migliaia di chilometri addosso, e le gomme lisce. Alle sei eravamo già in 200, molti di più dei posti disponibili. Gli ultimi si accampavano, sarebbero partiti a sera. I bambini piccoli correvano attorno alla folla, ignari, credendo che si andasse in vacanza. Ma le facce degli adulti, e quelle terree dei vecchi, certi che non sarebbero tornati. Una signora anziana e sola teneva stretta una gabbietta con un gatto. Poi c’erano le madri che salutavano i figli, che partivano da soli. Era difficile sostenerne gli sguardi, tanto erano gonfi di angoscia e di dolore.
Il viaggio costava duemila euro a testa, pagamento in contanti. I viaggiatori contavano le banconote nelle mani di un tipo con gli occhiali neri, che incassava e metteva loro in mano un semplice biglietto scritto a mano. Salivano senza una parola e si sedevano, le gambe strette tra gli zaini. L’ultima Milano intravista, mentre albeggiava, era una periferia diroccata, i palazzi semidistrutti, le finestre nere come orbite vuote.
Il pullman ora marciava sull’Autosole, stracarico, lentissimo. A quella velocità ci avremmo messo due giorni, ad arrivare. Sorpassavamo aree di servizio con le insegne spente: sarebbe stato inutile fermarsi, la guerra non aveva lasciato niente da mangiare, negli scaffali. Alcuni di noi dormivano, altri fissavano il paesaggio che scorreva, le campagne verdi e apparentemente in pace; quale dolore, scoprivano, era andarsene, dal Paese in cui si è nati.
Dovevamo arrivare in Calabria, al mare, e di lì imbarcarci per l’altra sponda del Mediterraneo, Libia, o Tunisia, ovunque potessimo sfuggire alle bombe, e alla fame. Non c’era più alcun traghetto di linea: saremmo saliti su un gommone, in duecento, le sponde dell’imbarcazione stracarica quasi a filo dell’acqua. Saremmo partiti all’alba, ma la notte ci avrebbe colti in mare; e quanto nero e immenso è il mare di notte, senza una luce, senza una rotta precisa da seguire. Girava voce che al timone non ci fosse un marinaio, ma semplicemente un profugo, bruscamente istruito dai trafficanti. I bambini salivano ridendo, credendo di andare in gita. Ma poi, quando la terra scompariva all’orizzonte, chiedevano alle madri, spauriti, dove si andava. E poi tacevano, mentre il sole si alzava e picchiava come un martello sulle fronti; soltanto il rumore del mare allora, che d’improvviso pareva vivo, un immenso animale che guardava i naviganti.
E questo naturalmente è solo un incubo. Benché, semplicemente voltando la mappa del Mediterraneo, si ripeta per migliaia di uomini e donne e bambini, tutte le notti, tutti i giorni.
Foto Ansa