Due autorevoli firme del Corriere della Sera, l’ambasciatore Sergio Romano e il corrispondente da New York Massimo Gaggi, intervengono oggi sul quotidiano per spiegare la fallimentare strategia in Medio Oriente del presidente statunitense Barack Obama.
PUTIN E OBAMA. Come è noto, la Russia di Vladimir Putin ha deciso di rafforzare la sua presenza militare in Siria. Notizia che, scrive Romano, non può aver colto di sorpresa l’America. Da tempo, infatti, la Russia «aveva lasciato comprendere che era disposta a collaborare con gli Stati Uniti e le democrazie occidentali contro la minaccia islamista», ma «l’offerta non è stata raccolta».
Il problema, dice l’ambasciatore, è che gli Stati Uniti seguono un triplice obiettivo di difficile realizzazione: sconfiggere il Califfato, eliminare Assad, impedire alla Russia di estendere la sua area di influenza sulla regione. Da parte sua, invece, Putin «è tornato sull’argomento con una dichiarazione in cui ha annunciato che Assad è pronto a fare nuove elezioni per il rinnovo del Parlamento ed è disposto a governare con la parte “sana” dell’opposizione siriana. Al di là di ogni considerazione sulla credibilità di una tale prospettiva, il messaggio dimostra che Putin continua a rivendicare un ruolo nella crisi siriana e non è disposto a permettere che il presidente Assad venga travolto da una paradossale convergenza tra l’Isis e le democrazie occidentali. Gli Stati Uniti sono contrari».
SOLUZIONE NEGOZIATA. Tutto ciò non fa altro che bloccare la situazione. Certo, se gli Usa fossero disposti a impegnarsi militarmente con truppe sul terreno, «il groviglio di desideri incompatibili», come li chiama Romano, potrebbe anche essere sciolto. Solo che il Nobel per la pace Obama è riluttante a impegnarsi sul terreno come il suo predecessore. E così tutto si complica. Si chiede Romano: «[Obama] ha un altro piano? Se crede ancora che una guerra, come quella combattuta dall’Isis in Siria e in Iraq, possa essere vinta con i droni, commette probabilmente un errore». Ma lo stesso errore lo commettono «quei Paesi occidentali (Francia e Gran Bretagna) che sembrano pronti, pur di provare la propria esistenza, a ripetere la disastrosa esperienza libica».
Un’ipotesi invece praticabile è quella indicata dal ministro degli Esteri tedesco. Frank-Walter Steinmeier che «ha chiesto ai russi di rinunciare all’invio in Siria di uomini e materiale militare, e a Francia e Gran Bretagna di astenersi dall’intervenire militarmente; e ha motivato questa richiesta aggiungendo che un tale atteggiamento allontanerebbe la prospettiva di una soluzione negoziata. Tradotta in chiaro questa dichiarazione sembra invitare implicitamente la Russia a farne parte».
TUTTI GLI ERRORI DI BARACK. L’analisi di Gaggi passa in rassegna gli errori dell’amministrazione Obama in Medio Oriente. A partire dall’ultimo, il tentativo di «denuclearizzare» l’Iran che per ora ha sortito l’unico effetto di scatenare «la rabbia israeliana e l’irritazione dei Paesi sunniti del Golfo, mentre si è arenato ogni tentativo di affrontare la questione palestinese».
Ma è sulla Siria che il presidente democratico ha fatto i suoi errori più macroscopici e su cui «rischia di essere giudicato in modo severo dalla Storia». I «ripensamenti», i «tentativi falliti di mettere fuori gioco il regime di Assad», «la sottovalutazione della minaccia dell’Isis» – elenca Gaggi – hanno dimostrato essere un’illusione pensare di poter «rimettere ordine» con qualche «milizia filo-occidentale sommariamente addestrata» quello che è diventato «il più pericoloso crocevia mondiale del terrorismo».
I “RIBELLI MODERATI”. Le mosse «spregiudicate» di Putin, ancora una volta, si sono dimostrate più efficaci di quelle di Obama. Non è la prima volta. Già due anni fa, ricorda Gaggi, «dopo aver convinto Obama a rinunciare ai bombardamenti di rappresaglia per l’uso di armi chimiche, [Putin] divenne il fulcro della soluzione diplomatica basata sullo smantellamento di quell’arsenale proibito».
La Casa Bianca «non ha fatto bene i suoi conti» cercando ad ogni costo di defenestrare Assad. Certo, la recalcitrante Europa non gli ha dato una mano, ma «il ritiro frettoloso dall’Iraq nonostante gli evidenti rischi di ulteriore destabilizzazione del Paese e la sottovalutazione iniziale della minaccia dello Stato islamico, definiti terroristi dilettanti rispetto ai professionisti di Al Qaeda, sono responsabilità dirette del presidente degli Stati Uniti».
BOOMERANG IRANIANO. La diplomazia statunitense è oggi in difficoltà. E anche la “mossa iraniana” può diventare un boomerang: «Il tentativo di rimettere in gioco il regime sciita – scrive Gaggi – ha certamente un fondamento, soprattutto davanti all’implosione dell’universo sunnita. Ma se in questa partita l’Iran, attraverso il quale stanno probabilmente passando i rinforzi militari russi diretti verso la Siria, si riavvicina a Mosca, Obama dovrà probabilmente ripensare la sua strategia: stante la non disponibilità di americani ed europei a rimettere truppe in campo in Medio Oriente, prima o poi l’influenza russa potrebbe arrivare addirittura fino all’Iraq dove già oggi gli Usa contano soprattutto sugli sciiti iraniani per contenere le offensive dello Stato islamico».
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