Premetto che di moda non capisco nulla e i jeans me li compro al mercato. Ma la discussione che nell’ortodossia russa si è scatenata dopo la presentazione a Milano della collezione donna autunno-inverno di Dolce e Gabbana, ispirata soprattutto ai mosaici di Monreale, è sintomatica del variegato panorama religioso russo.
Già un paio d’anni fa qualcuno aveva lanciato l’idea di un vero e proprio dress code per la «moda ortodossa», accompagnata da relative sfilate. Ora si è aperta anche la discussione sulla moda occidentale. Uno dei primi interventi è stato quello della studiosa e docente Irina Jazykova, secondo la quale D&G hanno fatto un uso improprio delle immagini sacre. L’idea di fondo è che immagini di questo tipo servano per elevare lo spirito e non per un uso profano, essendo «raffigurazioni adatte ai paramenti liturgici» e non a passeggiare per la strada. Altri commentatori, proiettando un giudizio moderno sul mondo antico, preferirebbero che un Braghettone correggesse anche i mosaici di Ravenna, sulla base della critica mossa dai Padri del VII Concilio ecumenico alla raffigurazione dell’adorazione dei Magi, visibile sull’abito dell’imperatrice Teodora in San Vitale.
Un sacerdote si dichiara «dispiaciuto più che offeso», e al contempo osserva che è inutile rimproverare Dolce e Gabbana per la pagliuzza della loro collezione quando sulle bancarelle ortodosse si vende la trave della paccottiglia religiosa (cinture che riportano preghiere, iconette da appendere in auto «che continuano a penzolarti davanti agli occhi», ecc.): «L’icona è un’immagine che ha un forte significato dogmatico, documenta che Dio si è veramente incarnato, è diventato visibile e, conseguentemente, è raffigurabile in sembianze umane». Alla maggior parte degli opinionisti russo-ortodossi la collezione di D&G piace, ne lodano colori, tessuti e ricami, si riconosce che «la moda è arte, è come dipingere un quadro, è l’espressione della propria identità perciò non tutto ha un significato funzionale». Ma se è vero che in Russia si vendono t-shirt con simboli religiosi, «così stilisticamente al di sotto di questa collezione e che buttiamo in lavatrice con gli asciugamani da cucina», quel che proprio non va giù è l’uso delle croci, piuttosto vistose, e dei «sacri volti» su borsette e scarpe. Del resto non gli si può dare torto: per un credente educato nella tradizione orientale «i sacri volti sui vestiti e sulle borse sono un evidente eccesso; qualcosa dentro di te si ribella».
Il prorettore del seminario di Saransk fa alcune distinzioni: nonostante la loro bellezza, alcuni capi non andrebbero indossati, e ribadisce che «i sacri volti sui tacchi sono una profanazione». Però osserva anche che nessuno si scandalizza se «ci annodiamo foulard che esibiscono santi o Gesù», e si chiede perché il legno dell’iconostasi può portare i simboli sacri mentre una donna, creata a immagine e somiglianza di Dio, invece no? «Personalmente – conclude – sono contento che questi maestri dell’alta moda si siano rivolti alla tradizione bizantina ricreando bellezza».
In questo si collega a chi sui forum riporta la riflessione del saggista e sacerdote Aleksej Uminskij, secondo il quale anche una elaborazione artistica «provocatoria» può servire a cogliere l’esperienza religiosa dell’artista, pur lasciando il sacro nello spazio che gli è proprio. Non sono in pochi a sottolineare che, in un Occidente dove si fatica a distinguere una chiesa nuova da un capannone industriale, anche questa può essere un’occasione (involontaria?) per lasciarsi interrogare dal senso del mistero che traspare da questi favolosi mosaici.
Stessa conclusione dell’intervento, più articolato, del professor Lidov, che vede nella collezione una buona imitazione basata sulla rilettura occidentale di stereotipi bizantini: «L’hanno creata dei professionisti della moda, i quali tuttavia non capiscono nulla di Bisanzio e nemmeno si sforzano di comprenderne il pensiero». L’uso della simbologia cristiana, se abbondante, «è però completamente svuotato di significato e trasformata in tratti e decorazioni». Perciò «è ridicolo accusare gli stilisti di sacrilegio in quanto l’ambito del sacro come tale per loro non esiste».
Ai commenti moderati si accompagnano, specialmente sui social network, interventi piuttosto duri. Persino un giornale «laico» come Argumenty i Fakty, pur ricordando che l’idea dell’uso del sacro nella moda non è nuova, la definisce «collezione provocatoria» e la gallery è accompagnata da commenti scandalizzati dei lettori: «Sacrilegio!», «Profanazione!», «I cattolici non sanno che le croci non si portano per bellezza?»… Altrove emerge l’idea della perdita di consapevolezza occidentale nell’usare le immagini sacre: «È come se i barbari fossero piombati sulle rovine di una civiltà e si fossero appiccicati tutto ciò che luccica, infischiandosene del significato». Oltre a prendersela direttamente con gli stilisti, alcuni invocano la giustizia divina citando san Luca («Guai a colui per colpa del quale avvengono gli scandali»), o quella umana augurandosi «la soluzione di questo problema in sede giudiziaria», dopo aver paragonato la collezione alle icone delle Pussy Riot – quelle sì che ci sembrano del tutto blasfeme.
Insomma, anche da queste discussioni apparentemente «frivole» emerge come l’ortodossia stia cercando da un lato di non perdere la propria tradizione, e dall’altro di confrontarsi con la modernità che spesso conosce questa tradizione solo superficialmente o per stereotipi.
Ci metto la mia parte di eresia: gli abiti sono talmente belli che quasi non noti le modelle…