“Forse non è inutile, anche se non di moda immediata, capire cosa ci sia sotto la inaspettata scomparsa del mondo cattolico in questo primo periodo di campagna elettorale… La ragione va attribuita a una debolezza culturale profonda”.
Così scriveva Giuseppe De Rita, Presidente del CENSIS, in un recente articolo sul Corriere della Sera.
Egli attribuisce questa debolezza a un pensiero Stato-centralista.
Concordiamo perfettamente.
Già in un precedente dispaccio scrivemmo su questo punto, riferendoci all’intelligenza della realtà. Che latita.
Questa volta vorremmo, con molta umiltà, dire qualcosa dell’intelligenza della fede, da cui, secondo una affermazione di Benedetto XVI, discende la chiave di giudizio e di trasformazione della realtà.
In uno straordinario commento a una bellissima poesia di Ada Negri, Mia giovinezza, si legge:
“E sei rimasta/ come un’età che non ha nome: umana/ fra le umane miserie, e pur vivente/ di Dio soltanto e solo in Lui felice”.
“Questo io non l’avrei mai scritto perché è un ultimo segno dello spiritualismo dell’inizio Novecento. “Solo Gesù”, “Gesù te solo”” Cristo solo”: perché? Cristo senza di te e senza la tua vita non è niente. Questo “solo” è il punto spiritualista, come se l’ideale sia Dio a discapito, a dispetto della vita, gettando un’ombra, offuscando con un’ombra eterna tutte le cose che passano. Invece è l’opposto : anche i capelli del capo durano per sempre”.
(L. Giussani Le mie letture)
Questo ci sembra il punto.
Immaginiamo che un incendio nell’appartamento in cui viviamo ci costringa ad una fuga precipitosa; abbiamo il tempo di portare via un solo oggetto, anche se sono due le cose che vorremmo salvare dalle fiamme.
Siamo, per così dire, costretti a scegliere, ad attribuire a una cosa un valore maggiore dell’altra. Salviamo l’oggetto A e perdiamo l’oggetto B.
Parlando di cose politiche, capita di sentire questo ragionamento: nella confusione del momento, mentre imperversano le fiamme (fuoco nemico o amico che sia) cerchiamo almeno di conservare l’impeto della fede, anche a costo di perdere qualcosa della sua manifestazione pubblica, fatta anche della presenza in politica. La fede, infatti, vale più della espressione fattuale che ne deriva, specialmente se ci riferiamo a un territorio insidioso e controverso come quello abitato dai partiti. Meglio conservare, anche in funzione prospettica, il seme (l’oggetto A) che curarsi troppo del ramo (l’oggetto B), su cui, accanto a qualche frutto buono, gravano anche tante mele ammaccate, o bacate, o persino marce.
Non sembrerebbe esserci nulla di illogico.
Ma forse è proprio qui che si annida la debolezza dell’intelligenza della fede.
L’intelligenza della fede cristiana si riassume in una parola: Incarnazione.
A e B sono indissolubilmente legati, e non si possono separare. In un certo modo, sono la stessa cosa.
Siamo certi di ciò, perché l’Incarnazione è frutto della genialità di Dio.
Per questo, a proposito della diaspora cui pare destinata la presenza dei cattolici in politica, vale la pena riflettere con attenzione sulla conclusione di De Rita.
In cotanto antropologico statalismo (certo non compensato dal riferimento a una fantomatica «società civile») il mondo cattolico sembra purtroppo vivere bene, senza troppe preoccupazioni per quel bene comune che a parole dice di perseguire. Vede la povertà del contesto, ma non ha la visione sociopolitica necessaria per andare oltre; e se l’avesse avrebbe paura delle potenziali accuse di fondamentalismo; per cui si premunisce disperdendosi un po’ in tutte le formazioni che vanno alle elezioni; tirando un po’ a campare, ma promettendo che si mobiliterà se e quando saranno in pericolo i cosiddetti valori non negoziabili.
In questa non entusiasmante prospettiva a breve termine, forse sarebbe stato più utile «saltare il turno» delle elezioni di febbraio e prepararsi alla prossima volta, facendo maturare quella unitaria capacità di discernimento e proposta che oggi non risulta in gioco.