Pubblichiamo la rubrica di padre Aldo Trento contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Dopo gli avvenimenti accaduti con la visita di papa Francesco alla Fondazione San Rafael, riprendo il mio dialogo con coloro che mi scrivono perché torturati dalla depressione, dal male di vivere come lo definiva Pavese. Prima però voglio ancora sottolineare l’emozione di aver assistito al gesto di quelle grandi braccia aperte del Papa quando ha incontrato i miei ammalati, perché è questo l’abbraccio di cui tutti abbiamo bisogno. Penso non si possa ricevere grazia, o gioia più grande del ricevere in casa mia, con i miei figli, il dolce Cristo in terra! E anche voi, che soffrite fisicamente e spiritualmente, siete parte di questa famiglia prediletta dal Santo Padre. Quando mi ha detto «adelante», abbracciava anche tutti voi.
(Padre Aldo)
Sono un presbitero e da dieci anni mi è stata diagnosticata una depressione che, nonostante la psicoterapia, farmaci, e tutto l’armamentario, non vuole lasciarmi. Purtroppo vivo in piccole comunità, dove le relazioni tra noi frati sono difficili, tese quando non inesistenti. Vedere che tra noi c’è così debito di umanità (prima ancora che di fede) è avvilente, scoraggiante e disperante. Sono demotivato, prego (poco) e per dovere, anche se mi sembra di essere sincero. Voglio bene al Signore, alla Madonna, a san Francesco. Vorrei star bene, non avere più queste finestre orribili di cadute nel buco, fare bene il ministero che mi è affidato e non dar fastidio ai confratelli. Come faccio? Ho messo in campo tutte le mie energie, ma non ne ho più. Presto sarò trasferito per un nuovo incarico, non più in un ministero diretto. Non so se andrà bene, ho il timore che non guarirò mai più.
Giuseppe
Dopo che è terminata la strada alla vita consacrata, non riesco più a fidarmi delle persone e della realtà. Prego, vado a Messa e questo mi dà forza, ma la sfiducia mi allontana dalle persone cui voglio bene e ora ho una grossa forma di depressione, o meglio, una sindrome ossessivo compulsiva, per cui siamo passati all’uso di farmaci; ma questo dolore dentro non si attenua, e forse dovrò anche andare dallo psichiatra. Io vorrei essere felice, ma l’anno scorso è crollata una costruzione costruita in anni di fatica e ora ho paura. E la paura è data dal fatto che non riesco a vivere pienamente con le persone che vivono con me. Ho ritrovato il lavoro, ma ho paura di perderlo. Ho paura di perdere nuovamente tutto in un periodo in cui forse posso guarire, e se non potessi guarire vorrei non perdere ciò che Dio mi ha donato e vivere con letizia.
Lettera firmata
Queste lettere arrivano da due persone che hanno consegnato la vita a Cristo nella verginità. Ancora una volta rivedo il mio tormento. Mi sento uno di voi con la differenza che oggi guardo al mio passato come la modalità con cui il Mistero non solo mi ha forgiato con il fuoco del dolore, ma ha anche fatto di me uno strumento di misericordia, di speranza per i miei poveri, per i miei ammalati terminali, per le mie ragazze violentate.
Oggi mi è chiaro il perché di tanti anni di dolore psichico che chiamerei in modo più realista “notte dell’anima”, tale e quale a come l’avete descritta. E posso affermare con certezza che è Dio che l’ha permessa, sia per purificarmi sia per essere totalmente suo, permettendogli così la costruzione di un’opera in favore di chi soffre che neppure potevo immaginare quando la paura di diventare matto mi tormentava. Guardando l’accaduto non ho timore di affermare che Dio si serve anche dei matti per mostrare agli uomini la sua infinita misericordia.
I sintomi del dramma che vivete partendo dalla mia esperienza sono positivi perché vi “obbligano” non a pregare, ma a gridare la preghiera vera, quella che nasce dalla carne e che è solo e sempre un grido. Un grido arido, secco, ed è lo stesso grido di Gesù nel Getsemani e sulla Croce.
Ecco, a noi Dio ha concesso di vivere l’esperienza di suo figlio. Nella notte del Getsemani l’oscurità della Croce e il grido di Gesù formano parte del cammino di chi vuole seguire Gesù stesso. La fecondità della vita nasce dal percorrere lo stesso cammino di Gesù, un cammino nel quale anche Gesù ha chiesto invano uno sguardo ai suoi amici. E ciò che più mi fa venire la pelle d’oca è il fatto che neanche il Padre gli ha risposto. Che Mistero! Che solitudine! Ed infine che fecondità, che fioritura dall’albero della Croce!
Usate pure tutti i mezzi a vostra disposizione, ma non dimenticate che questo è il cammino. Dobbiamo imparare a mordere la pietra «affinché la verità non si cristallizzi in dottrina».
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