«La politica sociale del fascismo fu nei primi anni una politica riformista normale, furono introdotte alcune leggi che facilitavano l’agricoltura, mettevano un primo ordine nei luoghi di lavoro; assicuravano con l’Iri un industrialismo assistito, una rinuncia al capitalismo feroce». «Eravamo un paese arretrato, con una classe imprenditoriale anch’essa arretrata, e ad un certo punto fu giocoforza fare un’economia protezionista». «Il fascismo, nato come regime di massa, fece partecipare alla vita politica un numero maggiore di persone. I ceti medi, infatti, che nel regime liberale non avevano contato, sotto il fascismo, pur nei modi e nei limiti previsti, partecipavano alla vita politica». «Non è esistito un razzismo degli italiani diverso dal razzismo di tipo coloniale… era politica di dominio non di sterminio». «Il popolo italiano le leggi razziali non le ha sentite per niente; l’adozione delle leggi razziali per adeguarsi alla Germania nazista furono una prova di subalternità rispetto alla Germania». «In tutto il fascismo fino al 1935, non c’è la minima traccia di razzismo antisemita». «Le affinità tra nazismo e fascismo sono pochissime e sono affinità di metodo: sono due regimi di massa, a partito unico, autoritari; ma le differenze sono molto più grandi delle somiglianze. Veramente fra fascismo e nazismo non c’è alcuna parentela».
Dopo la battuta sulle benemerenze del fascismo prima dell’approvazione delle leggi razziali del 1938 che ha prodotto echi in tutto il mondo, si potrebbe pensare che i virgolettati di cui sopra provengano da un’intervista a Silvio Berlusconi, magari rilasciata per protrarre il clamore suscitato con la dichiarazione del 27 gennaio e inseguire con una manovra davvero spericolata l’obiettivo di restare al centro dell’attenzione fino alla fine della campagna elettorale. E invece no, si tratta di affermazioni contenute in un libro a più voci pubblicato nel 1985 col titolo Fascismo ieri e oggi, e il loro autore è niente meno che l’ex partigiano Giorgio Bocca. Il quale negli anni successivi abiurerà questo revisionismo, tornerà su posizioni più prossime all’idea del fascismo come male assoluto e attaccherà spietatamente Giampaolo Pansa, accusato di voler denigrare l’antifascismo coi suoi libri sul “sangue dei vinti”.
Cosa fece tornare Bocca sui suoi passi? Sicuramente l’ingresso di Berlusconi in politica, che Bocca avversò sin dall’inizio, lo sdoganamento dell’Msi per opera sua, e il fatto che accusare Berlusconi di neo-fascismo poteva essere utile per indebolirlo. In uno dei suoi ultimi articoli sull’Espresso Bocca irrise Berlusconi definendolo «un Mussolini fallito». Alla luce dell’andirivieni intellettuale di un Giorgio Bocca si può azzardare una conclusione: se Berlusconi non fosse entrato in politica circa vent’anni fa, la riflessione storica e il lavoro della memoria sul fascismo avrebbero fatto nella coscienza degli italiani qualche passo in avanti. Probabilmente non si sarebbe arrivati a una memoria condivisa, ma non offriremmo, quasi sessantotto anni dopo la morte del duce, il patetico spettacolo di un paese dove alla subcultura dei gagliardetti e dei saluti romani si contrappone un antifascismo isterico, incapace di pensiero e totalmente strumentale a lotte di potere contemporanee che nulla hanno a che vedere con quello che in Italia accadde nella prima metà del secolo scorso.
L’Italia non ha mai fatto veramente autocritica sugli anni del fascismo, quindi non è arrivata a storicizzare il fenomeno, quindi continua a inanellare paradossi grotteschi, come quello che si è materializzato ieri a Milano: Berlusconi loda le “cose buone” del fascismo e gli antifascisti in servizio permanente ed effettivo si stracciano le vesti. L’uno e gli altri dimenticano un particolare: che le “cose buone” del fascismo sono quasi tutte ascrivibili a scelte politiche che oggi verrebbero definite “di sinistra”. È stato il fascismo a creare in Italia lo Stato sociale e a imperniarlo sul welfare statale centralizzato, a introdurre i contratti di lavoro collettivi, a modernizzare la Previdenza sociale istituendo l’antenato dell’Inps, e a creare aziende di Stato come Iri, Eni, ecc. Fra il 1937 e il 1939, nel momento del massimo consenso e al culmine della sua parabola storica, il fascismo cominciò ad attuare i punti più progressisti del programma dei Fasci di combattimento del 1919: l’abbassamento dell’età pensionabile (da 65 a 55 anni), la reversibilità della pensione al coniuge sopravvissuto, la limitazione a 40 ore della settimana lavorativa. Tutte questioni decisamente più serie del folklore dei treni in orario o dell’agiografia della bonifica delle paludi pontine. Eppure la confusione mentale è tale che a mostrare apprezzamento per provvedimenti di stampo socialista troviamo il liberista Berlusconi, mentre a scandalizzarsi alla sola menzione di contenuti politici progressisti nel fascismo è la sinistra.
Nessuno pretende di dire che una valutazione storicizzata e obiettiva del fascismo sia cosa facile. La natura equivoca del fenomeno disorientò anche i contemporanei, quando si ricorda che a vedere con favore il fascismo furono anche numerosi ebrei italiani e, a livello internazionale, personaggi del calibro di Winston Churchill. Secondo gli storici erano 746 gli ebrei aderenti ai Fasci italiani di combattimento e all’Associazione nazionalista italiana che nel 1923 confluirà nel Partito nazionale fascista, 350 circa quelli che parteciparono alla marcia su Roma. Alcuni di loro ricoprirono cariche importanti sotto il fascismo: Guido Jung fu ministro delle Finanze, Aldo Finzi sottosegretario agli Interni (poi partigiano e martire alle Fosse Ardeatine), Dante Almansi prefetto e vicecapo della polizia, Renzo Ravenna podestà di Ferrara, Maurizio Ravà vicegovernatore della Libia e governatore della Somalia. Alcuni ebrei italiani militarono nello squadrismo e caddero per mano dei “rossi”, meritando il titolo di “martiri del fascismo”: Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo.
A Londra non furono meno miopi. In un discorso del 1933 Churchill disse testualmente: «Il genio romano impersonato da Mussolini, il più grande legislatore tra i vivi, ha mostrato a molte nazioni come possono resistere alle pressioni del socialismo, e ha indicato il cammino che una nazione può seguire quando è coraggiosamente guidata». Dieci anni prima il Times aveva salutato il primo anniversario dell’avvento del fascismo al potere così: «Gli italiani sono colpiti perché il fascismo non è semplicemente una tipica rivoluzione politica che è riuscita, ma un’autentica rivoluzione spirituale. Il fascismo ha ridotto in grande misura il debito pubblico, ha migliorato enormemente i servizi statali, specialmente le ferrovie; ha ridimensionato una burocrazia ridondante, senza provocare una grave disoccupazione; ha perseguito un’energica e fortunata politica coloniale, ha recuperato la sicurezza interna e l’orgoglio nazionale». Come si può vedere, il mito dei treni in orario attecchì perfettamente in riva al Tamigi.
Sviste indotte dalla propaganda? Benevolenza interessata di chi si appigliava a tutto pur di tenere lontana la minaccia bolscevica? In parte certamente sì. Ma non si va lontano nel giudizio storico se non ci si immedesima nelle ossessioni del tempo: l’urgenza di una risposta alla questione sociale che fosse diversa da quella comunista sovietica, percepita come un imbarbarimento distruttore di civiltà; la venerazione per la scienza e la tecnologia che sembravano sul punto di fornire i mezzi per la realizzazione del superomismo; lo spirito della fraternità d’armi dei reduci della Prima Guerra mondiale, pronti a prendersi la rivincita sui politici parassiti e corrotti.
È evidente che i progressi sociali e industriali resi possibili dal fascismo scolorano di fronte alle responsabilità del regime nell’Olocausto degli ebrei, nella soppressione delle libertà politiche, sindacali e associazionistiche in genere, nelle intimidazioni e nelle violenze contro i dissidenti, nell’imposizione del conformismo, nella catastrofe morale e materiale della guerra e della guerra civile in particolare. Eppure l’amnesia nazionale si esercita anche sull’elenco delle colpe del fascismo, che pure è stato steso e illustrato mille volte: mentre le rappresaglie nazi-fasciste contro le popolazioni dell’Appennino e del Nord Italia in genere del 1944-45 e il tentato genocidio degli ebrei italiani sollevano ancora oggi giustamente l’esecrazione unanime, quasi impalpabile è il senso di colpa per i crimini di guerra che gli italiani in epoca fascista hanno compiuto nel resto del mondo. Le fucilazioni e le impiccagioni di civili in Etiopia, Libia, Montenegro, Slovenia e Dalmazia, che hanno causato decine di migliaia di vittime, sono condannate all’oblìo in nome di una schizofrenia della memoria: si tratterebbe di crimini del fascismo e non dell’Italia, perché gli italiani sarebbero stati vittime del fascismo più o meno allo stesso titolo dei popoli che gli eserciti di Mussolini hanno tiranneggiato e massacrato.
Cosa c’entra questo con l’uscita di Berlusconi e le reazioni che ha innescato? C’entra tantissimo. La censura sui progressi sociali e industriali del fascismo e l’oblìo dei crimini di guerra del regime compiuti lontano dal territorio italiano dipendono da un’unica e medesima schizofrenia della memoria. In forza della quale gli italiani continuano a non considerarsi responsabili del fascismo e a non assumerlo come parte della propria storia. Condannandosi a baloccarsi coi miti del fascismo e dell’antifascismo. Ma forse è proprio quello che desiderano.