Comincio subito dal fulmine. Spero che mi folgori mentre ne scrivo dopo esserne stato incendiato. Il presidente della Repubblica armena Serz Sargsyan parla nella pancia del Vittoriano, a Roma. Dice una cosa che nessuno aveva detto e noi – io almeno – neanche pensato. Rievoca la condizione dei cristiani di oggi in Medio Oriente straziati dall’islam del Califfo (gli armeni hanno una certa esperienza alle spalle…) e dice: «Tutti abbiamo dispositivi fatti per ritrasmettere filmati festosi di battesimi. Oggi capita di vedere con frequenza, sui telefonini, immagini di giornalisti cristiani decapitati». Ripeto: giornalisti cristiani decapitati. La lingua armena è tale che il suono di quelle parole li fa risultare più cristiani e più decapitati di quanto si percepisca in lingua italiana.
Avevano pensato fossero giornalisti. E poi americani e scozzesi. Di questa o quella idea politica. L’identità degli assassini invece li assegnava nei nostri pensieri a un islamismo feroce, però nel contempo proprio così li premiava: la definizione di costoro l’abbiamo riferita al rapporto con Dio. Invece che gli uccisi fossero cristiani, no, questo non lo aveva detto nessuno, ma neanche pensato. Perché?
Il fatto è questo: non abbiamo inconsciamente voluto offendere i morti, togliere loro qualcosa dicendo che erano cristiani. Non riusciamo a pensare una persona considerando decisivo per lei e per la civiltà che l’ha partorita il nesso che ha con la verità. La cosa più vergognosa che si possa dire di un uomo o di una donna oggi in Occidente come in Oriente è la qualifica di cristiano.
Il cristianesimo nelle nostre teste occidentali è diventato qualcosa di serio solo nella mente contorta di chi si prende la briga di tracciare la “N” di Nazareno sulle case di gente remota dell’Iraq o della Siria. Altrimenti per noi è un dato culturale così sbiadito e ovvio da essere un orpello retorico, spiegando che combattiamo gli islamici terroristi sì, perché loro combattono la civiltà cristiano-occidentale, ma non perché noi siamo cristiani e ci teniamo. È un hobby privato meno rispettabile di certo dell’essere vegani. O un orrore simmetrico a quello di chi dice «Allahu Akbar!».
Invece, guardando quella mostra, si capisce: i cristiani sono gente normale che vive di Cristo e se ne nutre nella normalità quotidiana, con un legame misterioso e concreto con Dio incarnato. Questo insegna il nostro tempo di martiri cristiani d’Oriente. Non sono assassinati perché eroi giganteschi, ma perché, poveretti come sono, afferrati da Cristo e perciò stesso, senza alcun merito, odiati e assassinati.
La mostra “Parabole d’Oriente”, che presentava il presidente Sargsyan nell’occasione, è l’epifania di questa verità elementare e semplice. Non gran che il titolo: sembra una canzone di Franco Battiato, un po’ profumi, mistiche e geometrie, saggezze sublimi per iniziati. Invece no. Dentro, che roba.
Sono felice che sia al Vittoriano in Roma, è bene che stia lì, come una reliquia sotto l’altare della Patria: lux ex Oriente nel buio del nichilismo. Un’altra folgore, dopo la prima dura e tremenda della parola “cristiani decapitati” (capitò anche a san Paolo, e non per mano di islamici, ma di acculturati romani): quella di una bellezza troppo forte e insieme quotidiana per essere stata partorita da misere creature. Sono riflessi del divino-umano quelli esposti in fotografie provenienti da sette paesi dove oggi – oggi! – sono sgozzati nostri fratelli.
Non esiste il cristianesimo in generale. Ma quello, con dei nomi e cognomi, luoghi, possibilmente numeri di telefono. Non parole diacce ma generose facce, sguardi compunti nella liturgia e abbandonati nell’allegria, chiese scoperchiate e lune immacolate. Viene da fare la rima, come nelle filastrocche dell’infanzia quando la verità è semplice ed è la mamma che indica Gesù crocifisso.