1961: i non ancora ventenni fratelli Wilson (Brian, Carl e Dennis) insieme al cugino Mike Love e all’amico Al Jardine, coetanei e anche loro appassionati di rock’n roll, fondano i Beach Boys. Nati per celebrare i fasti della gioventù borghese californiana, tutta dedita alla vita da spiaggia tra belle donne, auto luccicanti e surf sulle onde mastodontiche dell’Oceano Pacifico, il gruppo diventa in breve tempo l’ambasciatore di un pop, fatto di complesse armonie vocali, inusuali e impensabili per il grezzo rock dell’epoca. Dove i testi, inizialmente spensierati, assumono via via dimensioni esistenziali, alla ricerca di un dio che sempre più prende la forma del disagio quotidiano dell’insoddisfazione che sfocerà nell’uso compulsivo degli acidi e delle droghe, alla ricerca di un paradiso artificiale che porta inevitabilmente all’autodistruzione. A complicare la sanità mentale di Brian, il leader del gruppo, la sfida discografica e creativa che arriva di continuo dall’Inghilterra. I Beatles catalizzano il mercato musicale dei teenagers sfornando gioielli come Rubber Soul (1965) e Sgt.Pepper (1967), ai quali il gruppo californiano replica, in un primo tempo con Pet Sound (1966), da tutti i critici considerato uno dei più rivoluzionari dischi rock mai concepiti, ma che porta Brian Wilson ad accentuare una paranoia alla ricerca della canzone perfetta che coinvolge, in negativo, i rapporti personali con il resto del gruppo.
È in questa atmosfera delirante che nasce l’idea di Smile (1967), che sarebbe dovuto essere il punto di non ritorno della produzione dei “ragazzi della spiaggia” e che invece spezzò definitivamente l’equilibrio psichico di Brian Wilson. Un crollo nell’abisso dell’esaurimento nervoso, dovuto anche a un uso smodato di droghe, che segnò definitivamente la fine del periodo d’oro del gruppo californiano. Smile non venne mai pubblicato e Wilson si ritirò in analisi per riprendere contatto con la realtà, vissuta in maniera sempre più allucinata. I Beach Boys cadranno nell’oblio incapaci di affrontare le tematiche politiche che i nuovi idoli del rock, come i Grateful Dead e i Jefferson Airplane, assieme a tutta la schiera dei nuovi cantori west coast, stavano imponendo alla generazione dei giovani americani, tra proclami pacifisti e contestazioni radicali alla società costruita dai loro padri.
2012: sono passati circa vent’anni da quando Brian Wilson. con lo sguardo ancora perso nel vuoto, riprende con coraggio una sua produzione discografica. Timidamente, ma con costanza, riconquista la sicurezza compositiva e, attorniato da un gruppo di musicisti che lo aiutano a recuperare l’atmosfera degli assolati e al contempo perfidi anni Sessanta, licenzia una manciata di inediti raccolti in pochi album. Addirittura, agli inizi del nuovo millennio riaffronta il suo capolavoro, rinnegato decenni prima, e ne pubblica una versione nuova di zecca. Se ne accorgono solo gli addetti ai lavori che si lanciano in lodi sperticate, ma il ritorno alla celebrità è condizionata dalla riproposizione piuttosto pedissequa di un modello musicale ampiamente superato, anche se costantemente preso come punto di riferimento anche dalle rock band più innovative. Ed ora ecco l’ultimo tentativo, dimostrare che la classe non è acqua: dopo le incomprensioni, i sopravvissuti della formazione originale di cinquant’anni prima, quella di Barbra Ann e Surfin’ safari, di Get around e California girls, di Only Gods he knows e Good vibrations, ormai settantenni decidono di buttarsi in una nuova avventura discografica che li sta portando per il mondo (arriveranno anche a Milano e Roma, alla fine di luglio), per quella che si pensa sarà la tournee definitiva.
That’s why God made the radio è il titolo del nuovo cd: un’operazione nostalgia che spiazza piacevolmente l’ascoltatore: si riscoprono le armonie tanto care a Wilson & co. anche se, a dire la verità, Brian non le ha mai abbandonate. Il risultato è come un viaggio sulla Dealoren, l’auto di Ritorno al Futuro, in compagnia di Marty McFly e di questi scienziati pazzi per i quali il tempo sembra non essere mai passato, come se avessero veramente a disposizione la macchina del tempo. In patria sembra che abbiano vinto la scommessa, irrompendo in queste settimane ai piani alti delle classifiche delle vendite. Hanno pagato la professionalità e la coerenza? Forse, ma sta pagando sicuramente di più il momento che sta vivendo il pop rock, che vede imporsi temi musicali e testi dove la tristezza e la malinconia la fanno da padroni e un’indolenza un po’ nichilista si sta trasformando in un fatalismo che, almeno ai “nonnetti” Beach Boys, non impedisce la ricerca di quel Dio che “ricevendo i nostri messaggi, da un’antenna, come una preghiera, ci ha dato il rock’n roll e ha inventato la radio”.