Questa mattina, e durante il corso di tutta la giornata, ho ricevuto una montagna di auguri. Non mi capita nemmeno per il compleanno. Mi capita per san Luigi. “Auguri!”. Si va dagli sms in automatico, penso programmati da blackberry sul santo del giorno dai professionisti delle pr, a quelli che più impressionano perché sono schietti (è il caso delle figlie e moglie) o perché comunque costano pensieri (don Eligio e Camillo Langone) in giorni in cui i pensieri dovrebbero correre a ben altre ambasce.
Ma poi, cos’ha di così importante san Luigi Gonzaga, un santo fuori tempo massimo, se è vero, come è vero, che il famoso giglio della purezza, candore, pudore, innocenza, castità, fa oggi ridere i polli? Cosa può rappresentare, in un presente tutto attorcigliato sul sé – crisi di moneta, mentali, di gender – questo santo aggrappato al 21 giugno, giorno più lungo dell’anno, giorno di solstizio estivo e di luce come non ce n’è in tutti gli altri santi giorni dell’anno?
Traggo da una noticina di Avvenire, giornale dei vescovi, dunque da ritenere affidabile in materia storico-agiografica, che «Luigi fu figlio del duca di Mantova, nato il 19 marzo del 1568, fin dall’infanzia il padre lo educò alle armi, tanto che a 5 anni già indossava una mini corazza ed un elmo e rischiò di rimanere schiacciato sparando un colpo con un cannone. Ma a 10 anni Luigi aveva deciso che la sua strada era un’altra: quella che attraverso l’umiltà, il voto di castità e una vita dedicata al prossimo l’avrebbe condotto a Dio. A 12 anni ricevette la prima comunione da san Carlo Borromeo, in visita a Brescia. Decise poi di entrare nella compagnia di Gesù e per riuscirci dovette sostenere due anni di lotte contro il padre. Libero ormai di seguire Cristo, rinunciò al titolo e all’eredità ed entrò nel Collegio romano dei gesuiti, dedicandosi agli umili e agli ammalati, distinguendosi soprattutto durante l’epidemia di peste che colpì Roma nel 1590. In quell’occasione, trasportando sulle spalle un moribondo, rimase contagiato e morì. Era il 1591, aveva solo 23 anni».
Ecco dunque l’arcano: inconsapevolmente, da un santo combattente morto a 23 anni di peste, ci ritorna l’eco della generosità e capacità di sacrificio per un ideale dei vent’anni. Ritorna la luce della vita così come la fa Dio, prima della tempesta e poi della calma piatta. Prima della ruggine dei cuori e dell’appannarsi delle menti. Prima che venga il tempo in cui la “roba” è tutto. E di “quando c’è la salute”, come si dice, “c’è tutto”.
E allora uno può ben interrompersi nel giorno del suo onomastico e, come si dice, finalmente sapere “a quale santo votarsi”. Quello scelto da papà e mamma per battezzare una vita che è stata portata nel mondo sulle ali di un mistero che anche per chi è stato battezzato ha aspetti di impenetrabile guazzabuglio.
Perciò, intanto che tutto scorre e grazie anche al nostro santo patrono, noi possiamo sorprendere la verità luminosa e incontaminata (più utile delle informazioni di cronaca) che giace nella miniera delle nostre giornate. E, così mi sembra, ha ragione Susanna Campus, che dalla sua postazione umana apparentemente pietrificata, ci ha appena scritto che tutte le cose che lei vede «sono cose che vedete anche voi. La questione è che non ci prestate attenzione. La questione è che non vi fermate a guardarle. Perché guardare significa amare le cose per il semplice fatto che esistono». Ecco cos’è, adesso che ci penso, il giglio del Gonzaga che non passa.