Giangiacomo Schiavi ha scritto per il Corriere della Sera un commentino assai condivisibile sul problema dei “processi mediatici” all’italiana, traendo spunto ovviamente dalla clamorosa assoluzione del papavero del Pd lombardo Filippo Penati, fatto che oggi campeggia in tutte le prime pagine dei giornali.
Scrive Schiavi: «Il caso Penati, assolto dai giudici del tribunale di Monza, dimostra una volta di più che non è un gioco di parole la frase che ripetiamo di continuo: la presunzione di innocenza vale fino in Cassazione». Proprio in forza di questo principio, il bravo giornalista che tratta di procedimenti penali dovrebbe, secondo Schiavi, evitare sempre di appiattirsi sulle tesi della pubblica accusa. Lui la mette giù così (le sottolineature sono nostre): «I verdetti anticipati che stravolgono il diritto e trasformano l’imputato in un sicuro colpevole prima ancora dell’inizio del processo si rivelano spesso ingiusti sul versante giuridico e su quello umano: la cultura delle prove e delle garanzie non viaggia alla stessa velocità della delegittimazione, che è immediata e inesorabile».
Invece per l’ex presidente della Provincia di Milano, vicinissimo all’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, questa «cultura delle prove e delle garanzie» non si è mai vista da parte della stampa. «Tutto sembrava già scritto quattro anni fa: corruzione, finanziamento illecito, concussione, pratiche oblique per rastrellare soldi per il partito e le campagne elettorali, mente ingegnosa del “sistema Sesto”, il protocollo tangentizio per gli appalti, dalle aree Falck ai trasporti pubblici», ricorda Schiavi. Che poi affonda il colpo senza pietà infilzando giustamente i colleghi manettari: «Nel verdetto virtuale anticipato dalla pubblica piazza e dal suo stesso partito c’era scritto: colpevole. Il verdetto vero è stato invece un altro: assoluzione».
I cronisti forcaioli d’Italia si mettano dunque una mano sulla coscienza. E «naturalmente», sottolinea l’attento giornalista del Corriere, tutto questo «vale per Penati come per tanti altri prima di lui».
Ora. Noi non sappiamo se il quotidiano milanese intenda applicare la medesima «cultura delle prove e delle garanzie» anche per i tanti altri dopo Penati. Tuttavia, siamo certi che il fulgido garantista Schiavi dopo il bel commento di oggi si farà carico personalmente di andare a tirare le orecchie a quel suo collega che solo un paio di mesi fa, calpestando allegramente i princìpi di cui sopra, ha scritto sempre per il Corriere un articolo sull’arresto preventivo di Mario Mantovani abbastanza «ingiusto sul versante giuridico e su quello umano».
Il papavero di Forza Italia lombarda, ex assessore alla Sanità e vicepresidente della Regione, vi era era descritto nei termini di un uomo «con “spiccata capacità criminale”, come scrive il giudice nell’ordinanza d’arresto». Sentenziava l’autore del ritratto: «Ci sarebbe poco da dire: [Mantovani] non doveva arrivare in quel posto». «Il blitz di ieri appare come il segnale evidente di una maldestra continuità con la scia degli intrighi affaristici lasciati dalla giunta Formigoni». «Valgano per Mario Mantovani, ex senatore, ex plenipotenziario lombardo di Forza Italia, ex assessore alla Sanità, i discorsi fatti in questi casi per ogni indagato: aspettiamo che le accuse della Procura siano provate o smentite. Ma dietro una vicenda che riporta indietro le lancette della questione morale anche al Nord e riunisce il Paese in una sfilza di piccole e grandi ruberie, c’è il disorientamento dei tanti cittadini». «È difficile spiegare (…) che un politico, un pubblico ufficiale che dovrebbe essere al servizio della comunità, “ha una propensione alla violazione delle regole”, trucca le aste, briga per gli appalti, usa i suoi poteri per interessi personali, traffica per sistemare i suoi sodali».
L’articolo ne aveva anche per «la Regione Lombardia», che a causa di Mantovani si ritrova «di nuovo epicentro di corruttele». Perciò i suoi rappresentanti farebbero bene a piantarla di parlare di «modelli da esportare, come voleva il presidente Maroni». «Anche le dimissioni di Mantovani non sono un caso. È stato dismesso dall’incarico appena in tempo, prima che venisse arrestato da assessore: sembra quasi che la maggioranza di centrodestra se l’aspettasse, che non fosse neanche troppo nascosta una certa propensione all’uso privato del ruolo pubblico». Il maramaldo, infatti, guidava la sanità del Pirellone come «una greppia per dividere appalti, destinare fondi agli amici» eccetera eccetera.
Era il 14 ottobre 2015. Mantovani era appena stato incarcerato senza alcun processo (neanche di primo grado, figuriamoci la Cassazione) e con motivazioni e modalità quanto meno discutibili. A proposito di «verdetti anticipati», il pezzo del Corriere si intitolava “Il verdetto del buon senso sulla carriera di Mantovani”. Autore: Giangiacomo Schiavi.
Foto Penati: Ansa