La grande arena social network che fascia Michele Santoro, fatta di ponteggi, impalcature e una massiccia platea di fan. O il familiare salotto di Porta a Porta, col suo pubblico altrettanto in giuggiole per “il dottor Vespa”. O, ancora, il grande tabernacolo democrat, con lo schermo-navigatore da cui si affacciano gli esperti e l’applausometro lottizzato di Ballarò. Insomma, è la tv del talk-show, scandita dalla claque e glorificata da inquadrature che durano attimi di celebrità. E non importa si discuta di Berlusconi o di Monti, dei Suv o del terremoto. Importa che il clima sia decisamente caldo e pop. Che l’applauso scatti al momento giusto. E che il brusìo non si faccia sentire in quello sbagliato. D’altronde, potete immaginare una partita di calcio giocata in uno stadio vuoto? Già, ma la televisione è un’altra cosa. Dunque? Tutta colpa del biscardismo e della mistica caciarona? Chissà. Sta di fatto che, siano studenti o pensionati, di bassa scolarizzazione o pluri-laureati, teenager con velleità televisive che sperano di essere notate o semplici curiosi in cerca di una serata diversa, dietro il pubblico che fa da platea e orienta il tono dei talk, c’è un lavoro certosino di casting. Serve a esaltare la conduzione, a creare un feeling con lo spettatore che sta al di là dello schermo e si chiama “pubblico qualificato” (leggendaria, ad esempio, è la velenosa insinuazione, sempre smentita a viale Mazzini, secondo cui Santoro richiedeva un numero stabilito di persone di colore, preferibilmente giovani, per dare un tono multi-culturale al suo Anno Zero).
Due sono le macro-categorie del “pubblico qualificato” a far da corolla alle trasmissioni in studio: gli entusiasti, che partecipano in via del tutto gratuita. E i professionisti, parlanti o meri presenzialisti, che magari girano anche cinque talk a settimana, in cambio di un gettone di presenza. Per provare a far parte della prima categoria, basta segnarsi i numeri del centralino, l’indirizzo mail che scorre sul sottopancia in coda alla trasmissione e contattare la redazione. Come si diventa, invece, “figuranti”, cioè spettatori pagati? Per passaparola o tramite ingaggio dalle società di casting. La Rai, ad esempio, ha un proprio ufficio scritture: si può passare di persona a lasciare i propri dati, oppure mandare una mail con due fotografie (primo piano e figura intera), fotocopia della carta d’identità, certificato di residenza, codice fiscale, eccetera. Nei database di tutti gli operatori televisivi (non solo Rai, ma anche Mediaset, Rai, La7, tv locali), sono archiviati profili di ogni tipo. Nelle trasmissioni del mattino e pomeridiane, spopolano ad esempio i pensionati. Complici Marchionne e la crisi, le voci “operaio” e “disoccupato” sono gettonatissime (si narra che nascosto fra l’esercito dei figuranti romani ci sia persino il padre di Gabriele Paolini, l’anti-televisione che si butta nella televisione, il rompiscatole catodico che spunta a infastidire l’inviato del tg o irrompe nelle dirette).
Il segreto è d’obbligo
Vi domanderete: qual è la percentuale di “gente vera” e quella di “gente figurante”? Dipende. Si tratta di un mix a discrezione delle redazioni che producono i diversi format. E siccome la formazione e l’istruzione del pubblico in studio sono fattori cruciali per il successo o meno di una trasmissione, i numeri degli “spontanei” e dei “figuranti” sono avvolti da una pragmatico riserbo. Di certo c’è che, al di là dei segreti numeri, “comparse” non ci si improvvisa, si è retribuiti, bisogna dimostrare professionalità. Ed ecco cosa raccontano in proposito colleghi e colleghe del backstage (che, naturalmente, «non ho mai parlato con Tempi»). Oltre che rigorosamente maggiorenne, il figurante deve essere affidabile, puntuale, educato. Mal sopportate, benché tollerate, le corse per conquistarsi le prime file (dove spesso arriverà qualcuno a spostarti perché piazzare i figuranti in platea «è come dipingere un quadro, mai due colori identici vicini»). Generalmente, la buona comparsa non deve «creare problemi evitabili come indossare abiti con loghi riconoscibili» (in caso contrario questi verranno coperti con un pezzo di stoffa adesiva o sostituiti). Lato positivo: si è pagati (dai venti ai cinquanta euro) per fare sostanzialmente nulla. Lato negativo: tocca armarsi di santa pazienza. Al di là dell’impiccio di dover scovare nell’armadio magliette no-logo, il colore potrebbe comunque non piacere. Magari il capo veste male rispetto al taglio dei capelli (al che segue cambio di pettinatura e, casi estremi, parrucca). Chi arriva in trasmissione vestito di viola (sfiga) è un folle (o vuole provare il brivido del cambio d’abito all’ultimo minuto).
È vietato: mostrarsi annoiati se inquadrati, mostrarsi annoiati in generale, alzarsi per andare in bagno, sgattaiolare per andare a fumare. Perché è proprio durante le pause che vengono fatte le inquadrature al pubblico, che dovrà applaudire, sorridere o restare serio (o meglio, «in posa pensierosa, come se qualcuno stesse parlando»), a seconda delle indicazioni. Pessima idea mangiare in studio. Bere. Portarsi il cellulare. Tenere il cellulare acceso. Parlare al cellulare. Caramelle e chewing gum, neanche a parlarne. Ma non c’è niente di peggio che parlare col vicino, dal momento che «non si è lì per socializzare, ma per interagire con la telecamera». Riassumendo, bisogna seguire con attenzione le istruzioni dei suggeritori, che scandiscono il ritmo della trasmissione. Insomma, anche fare i figuranti è una faticaccia. Certo, ti può capitare la fortuna di diventare un personaggio. Come è accaduto ad Alessandro Cocco. Un tale che cominciando da Uno Mattina è riuscito a partecipare a sette programmi in una sola giornata. Però ti può capitare anche la sfortuna della terremotata di Forum, il programma condotto da Rita Dalla Chiesa, che dovette infine ammettere di essere una comparsa.
La categoria dei “dotati di parola”
In questi casi, trattasi tecnicamente di “figuranti speciali”. Ovvero, pubblico dotato di parola. Un ruolo ambitissimo. Il “figurante speciale” passa dall’interpretare la parte del concorrente di un quiz a quella del marito che si confessa con la moglie (finta) davanti a telecamere, ospiti e conduttrice. I “parlanti” sono il pubblico più difficile da reperire e il più “istruito” dagli autori delle trasmissioni. Prima della puntata si presentano loro gli argomenti. Sarà poi il conduttore, in corso di trasmissione, a decidere se interpellarli o no. Da Rai, Mediaset e La7 il coro è unanime: l’assuefazione a un certo tipo di talk-show (avete presente los indignados?) pare abbia generato mostri. La timidezza che bloccava la parola davanti a una telecamera ha lasciato spazio alla tendenza a fare comizi, scimmiottando lo stereotipo degli esponenti politici di riferimento, con tutti i «non mi interrompa» e i «vorrei finire il mio ragionamento» del caso. C’è poi una consolidata tradizione per cui si pesca volentieri tra gli studenti universitari (se si tratta un tema politico si andrà alla Bocconi, se l’argomento è medico all’Università del San Raffaele) o tra gli studenti delle scuole di giornalismo. Esistono anche delle claque private.
Chi registra a Roma si lamenta di una piaga piuttosto recente, e terribile: visto che «la strada per arrivare agli studi non è poi così lunga», i politici hanno preso l’abitudine di portarsi dietro “i ragazzi”. In genere si tratta di giovani militanti: in cambio di una serata assieme al leader, si spellano le mani («e anche le mamme a casa sono contente»). Vengono accolti con molti sorrisi, ma l’effetto, per chi sta dietro alle quinte, è simile a quando ci si presenta a una festa senza invito. Gli autori sbiancano e se la prendono con quelli della produzione, che se la prendono con l’Ufficio Scritture, che se la prende con la Casta. Perché l’ospite non può essere contraddetto: «E se quello la prossima volta non viene?». E allora capita che altri debbano alzarsi e lasciare il posto ai “ragazzi” che il politico di turno ha trasformato in garanzia di consenso. Spesso e volentieri «fanno un gran casino» e gli viene spento il microfono. Nei casi più estremi, vengono soavemente allontanati. Nonostante la cura al dettaglio, ci sono margini – variabili – di spontaneità e disobbedienza.
A volte il velo cade, e sono i momenti più gustosi. Come quando una figurante musulmana (che da contratto non era dotata di parola) non è riuscita a trattenersi dal dire la sua in studio dopo l’intervento di un parlamentare in cravatta verde. O come quando un giornalista televisivo, entrando nello studio di un salotto di seconda serata, ha ricevuto un calorosissimo applauso. Suscitando l’invidia degli altri ospiti. Uno sbotta: «Ammazza, quanto sei diventato popolare». All’altro scappa da ridere: «In realtà li conosco tutti. Sono gli stessi che avevo come pubblico io, due anni fa».