Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – A volte si scoprono realtà straordinarie semplicemente gettando lo sguardo, stimolati da qualcuno che con grande passione e profondità ha voglia di farle conoscere. È quanto è accaduto a Napoli nei giorni scorsi (15-17 giugno), dove è arrivato un folto gruppo di studiosi di storia della finanza provenienti dalle università più prestigiose del mondo (London School of Economics, Berkeley, Trinity College di Dublino, Wissenschaftskolleg di Berlino, Universidade di Lisbona, Università del Massachusetts, solo per citarne alcune) e di banchieri centrali (Federal Reserve di Chicago e Atlanta) con l’obiettivo di studiare alcuni documenti emersi dall’archivio storico del Banco di Napoli, una gigantesca fonte di conoscenza custodita nelle 330 stanze che si snodano nel Cinquecentesco Palazzo Ricca, in via dei Tribunali, nel cuore del centro antico della città.
L’archivio storico del Banco di Napoli appartiene alla Fondazione Banco di Napoli, diventata ente con scopi prevalentemente filantropici e sociali dopo che l’istituto di credito partenopeo è stato privatizzato nel 1997 in seguito a un clamoroso crac finanziario (oggi il Banco di Napoli fa parte del gruppo Intesa Sanpaolo). Ebbene, quest’archivio, stranamente conosciuto più all’estero che in Italia – qui, per esempio, è stato ambientato e girato nel 1985 il film Maccheroni con Marcello Mastroianni e Jack Lemmon – è sempre stato uno dei luoghi centrali della memoria di Napoli e del Mezzogiorno, fondamentale per la narrazione della grande epopea del suo popolo. In questo caso, l’attenzione degli studiosi si è focalizzata sull’attività di tipo creditizio svolta dai così detti banchi nuovi, istituzioni le cui origini risalgono al 1463 e che nascevano soprattutto per fini caritatevoli o filantropici visto che all’epoca era vietato prestare soldi a scopi di lucro.
Gli otto banchi nuovi – il più famoso è quello del Monte di Pietà che risiedeva in un celebre palazzo ancora oggi conosciuto con lo stesso nome – si fusero tra loro dando vita al Banco di Napoli dopo l’Unità d’Italia. Ebbene, lo studio di centinaia di questi documenti, durato più di due anni, ha rivelato aspetti inediti costringendo gli storici a riconsiderare le origini della banca moderna. Tutto questo grazie a un’iniziativa dell’Università Federico II che ha poi coinvolto la Banca d’Italia con il governatore Ignazio Visco che è stato testimone d’eccezione dell’iniziativa. Morale della favola, un comitato scientifico internazionale (nel quale figurano nomi come Antoin E. Murphy, Josè Luis Cardoso, Barry Eichengreen, Larry Neal, considerati i massimi esperti in materia) è arrivato a sentenziare che sì, le origini della finanza moderna si trovano a Napoli e che andrebbero persino riscritti i testi che fanno risalire in terra di Scozia il primo caso di scoperto bancario.
Rossini e Caravaggio
Ma cosa sono esattamente questi documenti e che cosa provano? Qualche esempio può aiutare a comprendere la rilevanza della scoperta. Napoli, 16 dicembre 1752: Raimondo Di Sangro, settimo principe di San Severo, paga 50 ducati a Giuseppe Sanmartino, per la realizzazione del Cristo Velato, uno dei più grandi capolavori della scultura di tutti i tempi, costato in tutto 500 ducati. Dodici giugno 1820: il sovrintendente del Teatro San Carlo, Domenico Barbaja, versa 40 ducati a Gioacchino Rossini per comporre la Madonna del Lago. Venticinque anni dopo (primo agosto 1845), un altro impresario dello stesso teatro lirico, Vincenzo Palma, trasferisce 159 ducati a Giuseppe Verdi per realizzare l’Alzira e il 17 novembre del 1849 il Duca di Ventignano paga sempre a Verdi 1000 ducati per la Luisa Miller. Per finire, il 6 ottobre 1606 Nicolò Radolovich, un uomo d’affari di origine balcanica, versa 200 ducati a Michelangelo Merisi da Caravaggio per dipingere un quadro raffigurante la Madonna col bambino in un coro di angeli (dipinto che avrebbe dovuto essere consegnato entro la fine di dicembre ma che non è mai stato ritrovato).
Questi sono solo alcuni esempi di fedi di credito e polizze emessi dai banchi pubblici napoletani. Secondo gli esperti, si tratta di innovazioni finanziarie tali da aver rivoluzionato il panorama monetario e gettato le basi della banca moderna. Ma perché sono così importanti? Semplice: questi documenti avevano la possibilità di essere “girati” diventando così un mezzo di pagamento vero e proprio. Detto in parole povere, rappresentano gli antenati della moneta cartacea, proprio perché venivano emessi basandosi sulla fiducia come ha voluto più volte sottolineare il governatore Visco, che ha coordinato l’ultima sessione del seminario di Napoli facendo un parallelo tra ieri e oggi («Oggi più che mai le banche centrali sono chiamate a salvaguardare la stabilità finanziaria mantenendo la fiducia. Il Banco di Napoli emetteva fedi di credito, i certificati di credito, basandosi sulla fiducia. Fiducia è quel che le Banche centrali dovrebbero creare e mantenere»).
La girata e lo scoperto
«La banca è sempre esistita», spiega Lilia Costabile, economista dell’Università Federico II che ha coordinato l’intero lavoro di ricerca, «gli antichi Greci e poi i Romani conobbero l’istituzione bancaria, e ci si può spingere anche molto più indietro nel tempo. In epoca più recente, esistevano e operavano floride banche in Italia e in altri paesi europei. Ma sono i banchi pubblici a introdurre i tre elementi costitutivi della banca moderna: la circolazione cartacea basata sulle fedi di credito, che rappresenta il primo esempio di deposito bancario circolante al mondo; la capacità di accrescere il volume della moneta attraverso la creazione di credito; l’introduzione dello scoperto di conto corrente». E su quest’ultimo punto, dal poderoso archivio emerge una vera chicca storica: il primo beneficiario di questo tipo di prestito registrato nel Libro degli Accomodi del Banco della Pietà risulta essere tale Stefano Rinaldo nel maggio del 1612. «Questa data è così importante perché consente di spostare a Napoli e di retrodatare di oltre un secolo l’introduzione dello scoperto di conto corrente, finora erroneamente attribuito alla Royal Bank of Scotland nel 1728», osserva Costabile.
Come in tutte le storie straordinarie c’è una persona straordinaria. In questa vicenda è Edoardo Nappi, 80 anni compiuti da poco e in mano un contratto di altri due anni per dirigere l’archivio storico del Banco di Napoli. «Sono entrato in quest’archivio nel 1963 che ero un ragazzo, l’ho trovato in condizioni disastrose, era tutto sotto sopra. Ma questo lavoro mi ha conquistato subito ed è diventato la mia vita». Nappi è andato in pensione regolarmente nel 1997, ma nel 2004 è stato richiamato dalla Fondazione perché era l’unico a conoscere tutti i segreti delle 330 stanze.
Nappi, l’eroe documentarista
«Ho mangiato tanta polvere e ci ho impiegato quasi cinquant’anni, ma ho imparato a leggere le scritture antiche e sono riuscito a rimettere a posto tutto, a inventariare, a catalogare, a impilare, con l’aiuto anche di tante persone appassionate come me. Quante giornate passate a spulciare documenti antichi, quante storie ho vissuto attraverso queste carte: la nascita dei primi giornali a Napoli, il periodo della peste, i commerci che la città intratteneva in tutto il mondo, le arti e i mestieri, la rivoluzione del 1799, Masaniello, lo sbarco del Banco di Napoli negli Stati Uniti con 350 agenzie per sostenere le rimesse degli emigranti, il finanziamento di migliaia di opere d’arte e di palazzi prestigiosi come Palazzo Donn’Anna. Ma anche quando venivano fatti prestiti in tutta Italia, pensate una volta a fine Ottocento, ai disoccupati torinesi». A Napoli, oggi Nappi, con all’attivo un’ottantina di pubblicazioni, racconti inediti dal “suo” archivio, è un documentarista la cui professionalità e competenza non ha pari nel mondo.