La sua sentenza, per dirla con Repubblica, ha «riconosciuto la stepchild adoption» per una «coppia di papà che vogliono adottare il figlio», restaurando per via giudiziaria un istituto faticosamente espunto per via politica dalla legge sulle unioni civili. Ma l’ormai ex presidente del tribunale dei minori di Roma Melita Cavallo (il verdetto è del dicembre scorso, lei nel frattempo è andata in pensione), a chi adesso obietta che non se ne può più di magistrati che «surrogano» i rappresentanti del popolo – vedi per esempio Avvenire –, replica convinta: «Mi sono limitata ad applicare la legge e basta».
La tesi del giudice è che la domanda in esame, presentata nel giugno 2015, rientrasse nei “casi speciali” previsti dall’articolo 44 della legge 184 del 1983 sulle adozioni, e che fosse suo dovere individuare nel «permanere nella situazione data» l’interesse del minore coinvolto, considerata anche l’affidabilità economica e affettiva della coppia. È la prima volta, hanno osservato tutti, che viene emessa una sentenza del genere «per una coppia di papà» e non viene appellata dalla procura.
Ora. Pur con tutta la discrezione possibile e con tutto il possibile apprezzamento verso la capacità genitoriale dei due uomini in questione, che saranno certamente ottimi papà, una cosa deve essere osservata. Ammesso e non concesso che Cavallo si sia davvero limitata ad «applicare la legge e basta» firmando la sentenza che ha firmato (ammesso e non concesso perché resta l’obiezione del giurista Alberto Gambino, secondo il quale le adozioni speciali tirate in ballo dal giudice minorile riguarderebbero situazioni di abbandono, e cioè «presuppongono che un genitore non vi sia, mentre qui la madre c’è»), come la mettiamo con l’utero in affitto?
Il giudice infatti, «nell’interesse superiore del bambino», ha ritenuto di dover chiudere gli occhi davanti al piccolo particolare che i due avessero ottenuto il figlio attraverso la maternità surrogata, pratica tuttora illegale e (almeno teoricamente) sanzionata in Italia. Anche volendo sorvolare sull’effetto che può avere una sentenza simile in una disputa politica tutt’altro che chiusa, tuttavia non si può non notare la stranezza degli argomenti che Cavallo utilizza per giustificare la decisione.
Il 2 gennaio, in una intervista a Repubblica in cui veniva celebrata come «la giudice coraggio» che se ne andava in pensione dopo avere emesso una raffica di sentenze “storiche” propedeutiche all’adozione per le coppie same-sex, Cavallo aveva spiegato:
«Maternità surrogata? Soltanto come un dono. Se posso donare un rene a un’amica o a una sorella che grazie a questo sopravviverà, dov’è lo scandalo di far nascere un bambino grazie all’utero di un’altra donna».
Il 31 gennaio in un’altra intervista celebrativa a Left era stata anche più esplicita (con l’interessante aggiunta di un inciso riguardo al suo essere cattolica):
«Maternità surrogata? Non mi sconvolge l’idea. Sono cattolica, mi sforzo di essere osservante, però, mi chiedo, per quale ragione, se posso dare il mio rene ad un’amica che ne ha bisogno, non posso invece usare il mio utero per mettere al mondo un bambino di un’amica o di un amico? Non capisco perché ci si possa privare di una parte del corpo ma non se ne possa utilizzarne un’altra. Se una donna si offre di portare un bambino in grembo sa bene che non è suo, si tratta solo di chiarire tutto prima».
Adesso attenzione ai termini, perché secondo la giudice in quel «chiarire tutto prima» starebbe, a quanto pare, il discrimine fra la maternità surrogata inaccettabile e quella su cui invece si deve essere indulgenti. Ma che discrimine è? Ha provato a spiegarlo meglio ieri la stessa giudice in una intervista concessa al Tempo proprio sul caso che ha fatto tanto clamore. Domanda del giornalista: «È corretto dire che questa sentenza sdogana la pratica dell’utero in affitto?». Risposta:
«L’utero in affitto è un’espressione dispregiativa riferita a situazioni che avvengono in alcuni Paesi, e che sono sicuramente da rifiutare perché il corpo di una donna non è in prestito né in vendita. Le due persone di cui il tribunale si è occupato hanno seguito le regole vigenti del Canada che regolamenta molto strettamente queste situazioni. Non si tratta di affitto di un utero, ma della gestazione di una donna che ha già partorito più volte, che ha dato la sua disponibilità ad aiutare una coppia in cambio della possibilità di rimanere a casa per tutto il periodo dei nove mesi assentandosi dal lavoro. Si fa un contratto regolare con un’agenzia, in un Paese che funziona bene, che accetta questa gestazione e la regolamenta in modo rigoroso ed equilibrato. Il bambino della coppia continua a mantenere contatti con la donna che l’ha portato in grembo».
Ma la distinzione tra utero in affitto e maternità surrogata “accettabile” non è l’unico campo in cui Melita Cavallo si inoltra con notevole disinvoltura. In una vecchia intervista concessa sempre a Left dopo aver sottoscritto un’altra stepchild adoption per una coppia di donne, la giudice aveva dichiarato:
«La famiglia tradizionale non esiste più già da trent’anni. Abbiamo “le famiglie”: la famiglia ricomposta, ricostituita, di madri single, quella omosessuale. Se i genitori sono persone serene ed equilibrate, i bambini crescono bene anche nelle famiglie separate o ricomposte, non c’entra nulla la diversità, conta l’empatia che un genitore ha con suo figlio. (…) Il bisogno della gente arriva da noi [magistrati] per avere una risposta. Non sempre esaustiva purtroppo. Abbiamo un contatto stretto con la società. E proprio per questo, come si fa a parlare della famiglia tradizionale? Siamo arrivati ai figli della quarta convivenza… E poi quelli che si rifanno alla famiglia tradizionale dimenticano le “altre” famiglie, quelle fuori del matrimonio che sono ormai la gran parte della società. Oggi quello che avviene nelle relazioni familiari è un’evoluzione e non un’involuzione, con emersioni di fenomeni che prima venivano soffocati. E noi non possiamo cancellare la realtà in nome di pregiudizi, condizionamenti, adesioni schierate e apodittiche, in nome di un credo che non può assolutamente reggere in una società democratica».
Riconoscere l’adozione di un bambino da parte di due papà? «Se fosse giusto per i figli, perché no?», aveva detto ancora Cavallo a Repubblica il 2 gennaio. «Sono i legami affettivi che contano».
Difficile affrontare queste cose senza apparire omofobi, nemici dell’amore o nemici del progresso. Ma in questo caso quello che deve «reggere in una società democratica» non è «un credo». È la realtà. Perciò bisogna essere laici, e senza pretendere di rovinare in alcun modo la narrazione della “giudice coraggio” guidata solo dall’interesse superiore dei bambini e dalla valorizzazione dei legami affettivi, ci permettiamo di segnalare un paio di problemi che restano drammaticamente aperti.
Primo. Premesso che la surrogazione di maternità, come sanno tutti, è sempre a pagamento, anche nei paesi dove «si fa un contratto regolare con un’agenzia», e premesso che comunque in Italia è ancora un reato a prescindere che sia effettuata a fini di lucro o meno, forse proprio perché cedere un bambino non è esattamente lo stesso che «donare un rene», siamo sicuri che basterebbe regolamentarla «in modo rigoroso ed equilibrato» per renderla una cosa buona e giusta?
Secondo. Non è vero che la paternità e la maternità sono solo questioni di capacità affettive (così come del resto è avvilente immaginare che l’amore per poter essere debba avere il timbro di un tribunale). «Amore, educazione e libertà si trovano anche in un orfanotrofio di alto livello, che disponga di uno staff di professionisti appassionati». Come ha spiegato splendidamente pochi mesi fa Fabrice Hadjadj a Tempi, essere genitori ha a che fare innanzitutto con la generazione e la genealogia. Chi lo vuole uno Stato che si concede la prerogativa di interrompere questo rapporto a propria discrezione?
Foto gay pride da Shutterstock