Fino ad ora la grande virtù di Rodríguez Zapatero è stata sempre di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. La vittoria con maggioranza assoluta del partito Popolare (Pp) nel 2000 aveva prodotto nei socialisti disorientamento, perplessità e un aumento considerevole del clima di scontro interno che si respirava dal ’96. L’anonimo deputato di León, sconosciuto all’opinione pubblica e con un curriculum parlamentare molto limitato, fu eletto segretario generale nel XXXV Congresso del Psoe, quattro anni fa a luglio, per nove voti.
La campagna sbagliata del partito Popolare
La campagna elettorale comincia con un vantaggio del Pp sul Psoe di quasi 7 punti. Ma il Pp arriva alla fine di febbraio con un Rajoy che già da cinque mesi è designato come successore e non ha ancora detto nulla che sia degno di nota. La strategia dei popolari è di non mobilitare i due milioni di voti della sinistra astensionista che non si era recata alle urne nel 2000. Basso profilo, quindi. Poca aggressività è una parola d’ordine molto ripetuta dalla destra tecnocratica e di apparato: l’importante è non sbagliare. Si nota che a Rajoy hanno preparato gli interventi persone come Gabriel Elorriaga e Carlos Aragonés, politici che da una vita camminano sul velluto. Gli è mancata la vicinanza di quegli uomini che con Aznar rifondarono il partito e che andarono conquistando i voti uno per uno per le strade. Con un contendente ossessionato dalla paura di sbagliare, Zapatero cresce. Il candidato socialista ha la magia di chi sa suscitare entusiasmo con grandi parole positive – speranza, cambiamento, dialogo – che non hanno bisogno di molta razionalizzazione. In una campagna soprattutto televisiva, il leader socialista giovane e dagli occhi chiari si consolida. Alla fine la differenza si riduce a due o tre punti. Zapatero può considerare raggiunto l’obiettivo di non essere messo in discussione dopo le elezioni.
Ma a quel punto la fortuna torna a sorridere a Zapatero in modo sorprendente. Il caso, gli errori del Pp che era diventato arrogante e incapace di capire come si doveva gestire la crisi dell’11 marzo a livello di piazza e il calcolo dei terroristi di Al Qaeda lo fanno diventare capo del governo. Non è stata né la sua capacità di mettere ordine nel suo partito, né un lavoro di paziente e seria opposizione, né l’originalità nel formulare proposte ciò che l’ha portato fino alla Moncloa. Semplicemente era nel posto – la candidatura utile per la sinistra – e nel momento – quando due milioni e mezzo di votanti astensionisti hanno voluto castigare il governo del Pp perché considerato responsabile degli attentati dell’11 marzo – giusti.
Lo strano gioco di forze che muove la storia a volte favorisce uomini che in altri momenti sarebbero solo arrivati a essere portavoce di una Commissione parlamentare. Questo non pregiudica nulla, ci sono casi in cui essi riescono ad essere all’altezza delle circostanze. Non è mai facile fare un pronostico, perché come dice Sofocle nell’Antigone, «non c’è modo di conoscere lo spirito, i pensieri e i punti di vista di alcun uomo, finché non emergono con chiarezza nel momento in cui è alle prese con il comando e le leggi». Il pronostico nel caso di Zapatero si fa più complesso perché la sua traiettoria e la sua tendenza a defilarsi impedisce di trovare nel passato piste rilevanti. Ciò che è certo è che le circostanze sono molto difficili. Noi spagnoli, per l’influenza del franchismo e per un malinteso pacifismo, tendiamo a cercare di uscire dalla storia e a cercare rifugi in cui i grandi problemi internazionali non ci sfiorino. Gli attentati dell’11 marzo hanno palesato che questa è una chimera. Dall’11 settembre l’islamismo terrorista di Al Qaeda è in guerra contro l’Occidente, e la neutralità è impossibile. In quest’ambito Zapatero già ha commesso il suo primo grande errore. Il giorno seguente alla sua vittoria ha annunciato il ritiro delle truppe spagnole dall’Irak, anche se condizionandolo a una nuova risoluzione dell’Onu. Meno male. Ha ancora una possibilità. La guerra in Irak è stato un grande errore, un grande equivoco che ha reso più difficile la lotta contro il terrorismo islamico. Ma ora che siamo lì bisogna pensarci due volte prima di fare le valigie.
“El Pais” sta alla Spagna come “La Repubblica” all’Italia
La norma per un presidente eletto è che, dopo la sua vittoria, si infili in un vestito scuro, abbandoni i gesti propri della gioventù e acquisisca gli atteggiamenti posati che accompagnano l’uomo di Stato. Assistemmo a questa mutazione quando González arrivò alla Moncloa e portò la Spagna nella Nato, o quando Aznar vinse nel ‘96. Assunzione d’impegni, studio di dossier, conversazioni con statisti e decisioni soppesate. Non in questo caso. Zapatero ha voluto ringraziare i suoi due milioni e mezzo di voti extra. E, come ha detto Gilles Kepel, «l’annuncio fatto dal presidente eletto del governo spagnolo è un segnale che dimostra che per la prima volta il terrorismo islamico ha ottenuto una vittoria politica immediata». Sicuramente ci sarà una nuova risoluzione dell’Onu. Zapatero sosterrà quindi che è stato lui che ha ottenuto un nuovo ombrello giuridico internazionale e che ha senso rimanere. Però sarà molto difficile, perché questi due milioni e mezzo di voti vogliono che ce ne andiamo dall’Irak con o senza risoluzione.
In ogni modo già è cominciato un lavoro di rieducazione del leader da parte dell’ala destra del suo schieramento. Zapatero non sarebbe arrivato dove sta senza l’appoggio del gruppo Prisa – Cadena Ser, El País e Localia. A Prisa Zapatero non è mai piaciuto, però l’ha comunque sostenuto perché i socialisti non crollassero, e all’improvviso si sono trovati con un presidente del governo tra le mani. A differenza dell’attuale direzione del Psoe, Prisa ha un progetto abbastanza definito. In politica internazionale l’atlantismo di Felipe González, che durante i suoi anni di governo ha sempre mantenuto una relazione eccellente con gli Stati Uniti, ha molto peso. È anche un atlantista convinto Javier Solana, attuale responsabile della politica estera e di sicurezza della Ue. Più che uomini del Psoe, quelli citati sono uomini di Prisa. Si mostreranno sempre contrari alla politica di Bush, soprattutto per il suo carattere conservatore e perché lo considerano un cristiano reazionario, ma starebbero probabilmente molto comodi con Kerry. I due sono molto distanti dal pacifismo irresponsabile che hanno usato per logorare Aznar.
In ogni caso gli editorialisti più in vista di El País hanno già cominciato a “spiegare” a Zapatero che forse conviene non andarsene dal Medio Oriente, e che è impossibile uscire dalla questione. Sempre da questo quotidiano un altro degli uomini chiave di Prisa – Miguel Angel Fernández Ordoñez, antica alta carica nei governi di Felipe González – ha cominciato a dire a Zapatero quello che deve fare. Qualche giorno fa gli mandava questo messaggio: «Sebbene l’eredità ricevuta non sia buona, il nuovo governo socialista non dovrebbe dedicare un solo minuto a criticare il governo precedente (…) oltre ad approvare decreti il governo dovrebbe dedicare molto tempo a convincere i consulenti economici dell’importanza di innovare, di essere efficienti e di essere flessibili». Se Zapatero ascolta Prisa, dovrebbe continuare a riformare il mercato del lavoro, cosa sempre più facile per un governo di sinistra che per uno di destra. Altri consigli: bisogna raccogliere «il meglio della politica finanziaria del Pp – l’importanza della stabilità finanziaria». Fernández Ordóñez, che ha passato tutta la legislatura a spiegare che bisognava rompere il Patto di Stabilità e passare all’applicazione di politiche keynesiane, torna all’ovile e appoggia il deficit zero. Se Pedro Solbes sarà alla fine il ministro dell’Economia, questo è garantito. Solbes è stato l’uomo che nell’ultima epoca di González difese maggiormente il controllo della spesa, ed è stato il fustigatore di Francia e Germania, nella Commissione europea, per aver saltato a piè pari il Patto di Stabilità. Nel campo economico Zapatero può lasciarsi orientare dagli uomini conservatori di Prisa perché il suo programma economico non è mai stato preciso.
Anticlericalismo e ortodossia economica
Altra questione è l’educazione. In questa materia Zapatero aveva sì detto chiaramente che avrebbe abolito la “legge di qualità dell’insegnamento”, una legge che ha reintrodotto la cultura dello sforzo in un paese come il nostro in cui il fallimento scolastico è uno dei più alti della Ue. Gli uomini di Prisa sono veramente preoccupati su questo tema. Hanno dedicato negli ultimi anni importanti risorse, attraverso la Fondazione Santillana, per studiare modelli educativi che funzionino. Per questo “indicheranno” a Zapatero il cammino per ottenere quello che considerano un’educazione di qualità. Che, ovviamente, significa osteggiare le lezioni di religione e rendere dura la vita alla scuola privata. Il segretario generale dei socialisti durante la campagna prometteva che avrebbe favorito l’insegnamento statale, che avrebbe eliminato la religione dalle materie con voto e che il suo governo avrebbe difeso i “valori secolari”.
È prevedibile che, rieducato dall’ala destra in materia economica, il nuovo inquilino della Moncloa usi la lotta contro ciò che considera «i privilegi della Chiesa» per compiacere l’ala più radicale dei suoi votanti. Diventare un “mangiapreti” non ha costi immediati, come invece ha una politica internazionale o una politica economica realmente di sinistra. L’unico costo potrebbe essere quello di un’autentica mobilitazione sociale dei cattolici, che però in questo momento è molto improbabile. È molto prevedibile che metta il nostro paese a capo della ricerca sulle cellule embrionali, che punti sulla clonazione terapeutica, che riconosca validità al matrimonio omosessuale e faciliti l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali. In realtà gran parte della destra non si mobilita per simili questioni. Cosicché, senza particolari complicazioni, doserà l’anticlericalismo con la moderazione economica e internazionale. Gli risulterà più complicato gestire il problema della coesione territoriale. Zapatero, a differenza di quello che fece il Pp, scommette su un’intesa con i nazionalismi moderati. In questo ha ragione. Ma quello che è presente nel Congresso dei deputati e che governa nei Paesi Baschi e in Catalogna non è nazionalismo moderato. Il Pnv (nazionalisti baschi) gli farà arrivare il piano secessionista di Ibarretxe l’autunno prossimo. Il presidente eletto ha già annunciato che vuole dialogare ma che in nessun caso ammetterà il piano. Dovrà scegliere tra perdere il Pnv come possibile alleato parlamentare o mantenere l’attuale modello di Stato e dare forza al Psoe nei Paesi Baschi come partito leader del blocco costituzionalista. Anche la Catalogna invierà a Madrid a breve una riforma dello Statuto che farà svanire quello che ora intendiamo per Spagna. In questo caso sarà molto difficile opporsi alla riforma, perché Esquerra catalana non sarà l’unico partito a reclamarla, ma si sommeranno anche i deputati socialisti catalani e forse addirittura il Cyu (catalani moderati). Il peggiore degli scenari è che ci sia un accordo tra i socialisti catalani, il Pnv, Esquerra e Cyu per richiedere, in forma congiunta, la riforma dei due Statuti. Allora cambieranno molte cose. L’unico contrappeso potrebbero essere i socialisti “españolistas” come Bono o Ibarra.
In ogni caso, il meglio che ci possa succedere è che Zapatero riconosca nel suo intimo che è arrivato al governo in circostanze eccezionali, che oltre ai due milioni e mezzo di voti extra che ha ricevuto, ci sono otto milioni di voti del centrosinistra e otto milioni di centrodestra. L’opposizione politica e la società civile devono ricordarglielo costantemente.