Mostriciattoli fatti per le stelle

Il Taz&Bao del settimanale Tempi di questa settimana è dedicato a una frase di padre Mauro Giuseppe Lepori, Abate generale dei Cistercensi, che egli ha pronunciato durante una testimonianza al Meeting di Rimini 2012 sulla figura di Eugenio Corecco, vescovo di Lugano ed eminente canonista.
«Ero timido e petulante ad un tempo, maligno mi definirà Corecco per la mia tendenza a scoccare giudizi acidi su persone e situazioni. Mi chiamavano Palestina per la mia avarizia, punta di un iceberg di timore a donare la vita che minava in me la gioia di vivere. A questo si aggiungeva una spessa coltre di religiosità scrupolosa e tappabuchi piuttosto clericale. Già al liceo mi chiamavano don Lepori. (...) Come a Giuda mi hanno sempre affidato la cassa delle comunità o degli appartamenti per cui sono passato. Devo aggiungere, purtroppo non per umiltà, che non sono mai stato eccessivamente intelligente almeno dal punto di vista accademico. Come lessi d’altronde una volta diventato abate di Hauterive nella lettera archiviata e confidenziale che don Eugenio scrisse al mio abate prima della mia ammissione alla vestizione. (…) In mezzo a tutto questo un bisogno struggente e molto sofferto di essere felice, di amare senza ritorno, attizzato senza ritorno nell’incontro nel 1976 con alcune persone di Cl ed una chiamata a seguire Cristo percepita alla Porziuncola di Assisi il giorno della Festa del perdono del 1977. Se oggi posso posare su questo mostriciattolo uno sguardo riconciliato non è tanto perché esso sia del tutto morto in me. Anzi. Ma perché è proprio lui che mi permette di misurare e capire la carità in cui mi sono imbattuto incontrando e vivendo con don Eugenio. E la carità è la gratuità di un amore per la tua vita che ti porta più lontano di dove saresti andato da solo».

Il Taz&Bao del settimanale Tempi di questa settimana è dedicato a una frase di padre Mauro Giuseppe Lepori, Abate generale dei Cistercensi, che egli ha reso durante una testimonianza al Meeting di Rimini 2012 sulla figura di Eugenio Corecco, vescovo di Lugano ed eminente canonista.

«Ero timido e petulante ad un tempo, maligno mi definirà Corecco per la mia tendenza a scoccare giudizi acidi su persone e situazioni. Mi chiamavano Palestina per la mia avarizia, punta di un iceberg di timore a donare la vita che minava in me la gioia di vivere. A questo si aggiungeva una spessa coltre di religiosità scrupolosa e tappabuchi piuttosto clericale. Già al liceo mi chiamavano “don Lepori”. (…) Come a Giuda mi hanno sempre affidato la cassa delle comunità o degli appartamenti per cui sono passato. Devo aggiungere, purtroppo non per umiltà, che non sono mai stato eccessivamente intelligente almeno dal punto di vista accademico. Come lessi d’altronde una volta diventato abate di Hauterive nella lettera archiviata e confidenziale che don Eugenio scrisse al mio abate prima della mia ammissione alla vestizione. (…) In mezzo a tutto questo un bisogno struggente e molto sofferto di essere felice, di amare senza ritorno, attizzato senza ritorno nell’incontro nel 1976 con alcune persone di Cl ed una chiamata a seguire Cristo percepita alla Porziuncola di Assisi il giorno della Festa del perdono del 1977. Se oggi posso posare su questo mostriciattolo uno sguardo riconciliato non è tanto perché esso sia del tutto morto in me. Anzi. Ma perché è proprio lui che mi permette di misurare e capire la carità in cui mi sono imbattuto incontrando e vivendo con don Eugenio. E la carità è la gratuità di un amore per la tua vita che ti porta più lontano di dove saresti andato da solo».

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